Il Gange non si può capire da lontano. Bisogna starci dentro, toccare quell’acqua che non è solo acqua, ma un flusso di storie, di vite, di preghiere sussurrate e di risate di bambini. A Rishikesh, sulle sue sponde sacre, ho fermato il passo. Non cercavo nulla di preciso, come spesso accade quando si viaggia non con la testa ma con il cuore. E d’un tratto, proprio lì, quel momento mi si è offerto.
La street photography, dicono. Ma non si tratta di “fotografia di strada”, è piuttosto un modo di farsi da parte, di diventare un punto invisibile nell’universo pulsante della vita. È attendere che il caos si ordini in un istante perfetto, che l’ordinario si faccia straordinario. E in quell’istante, ho visto loro.
Giocare nel Gange: un’immagine, una storia

Il titolo che ho dato a questa immagine non è un’etichetta, è una verità che mi si è stampata nell’anima. Un ragazzo, ancora con i piedi sull’ultima roccia scivolosa, si slancia verso il fiume. Il suo corpo è una freccia tesa, pronta a tuffarsi in quel grande abbraccio marrone. Più avanti, quasi immerso, un altro bambino si muove come fosse un pesce, libero, senza il peso del tempo o del mondo. Non c’era nulla di posato, nulla di costruito. C’era solo la gioia pura e semplice di esistere, lì, in quel momento, in quel luogo.
Ero lì con il mio obiettivo, ma mi sentivo un intruso necessario. La macchina fotografica non era un filtro, ma un ponte. Ho scelto il bianco e nero non per una questione di stile, ma per svelare l’essenza, per togliere ogni distrazione e far emergere la luce, le ombre, il contrasto tra la forza dell’acqua e la leggerezza dei corpi. Per mostrare che in quel fiume non c’è solo spiritualità, ma anche vita, una vita che scorre impetuosa e selvaggia come le sue correnti.
Il Gange: un fiume, una divinità, un’anima
Non si può guardare il Gange solo come un fiume, perché è molto più di un’anima che scorre. È un’entità, un personaggio millenario che ha plasmato non solo la geografia, ma anche la cultura, la religione e la vita di centinaia di milioni di persone. La sua storia non è scritta nei libri di testo, ma scolpita nella fede e nelle leggende.
La dea Ganga, secondo la mitologia indù, scendeva dal cielo per purificare la terra. E il Gange, purificato e reso sacro, ha iniziato a scorrere, portando con sé non solo acqua, ma la possibilità di redenzione e salvezza.
Il Gange è stato ed è il centro di una civiltà. Lungo le sue rive sono nate città millenarie come Varanasi, il cuore spirituale dell’India, e Haridwar, porta d’accesso alle sue acque sacre. È il luogo dove si celebrano i riti di vita e di morte, dove i pellegrini si immergono per purificarsi dai peccati e dove le ceneri dei defunti vengono disperse per liberare l’anima. Non è solo un corso d’acqua, ma il filo che lega l’esistenza terrena a quella spirituale.
Quando una foto racconta un’epopea
Questa foto, in fondo, non parla solo di due ragazzi che giocano. Parla del Gange, che è un po’ la Madre India stessa. È il ciclo continuo della vita: la gioia, la fatica, la purificazione e la rinascita. E parla anche di noi, che viaggiamo per incontrare gli altri e, alla fine, incontriamo sempre un pezzo di noi stessi.
Ero lì, sulle sue rive, non come un turista, ma come un testimone di questa storia infinita. Quei bambini che giocano nell’acqua non sono solo bambini. Sono parte di questo fiume, di questa storia, di questa corrente che non si è mai fermata. La loro risata è l’eco di generazioni passate, il loro tuffo è un atto ancestrale di connessione con la terra e con il cielo. È questo che un fiume come il Gange insegna: che ogni momento, ogni gesto, è un piccolo tassello di un’epopea ben più grande.