Varanasi, ogni vicolo è un respiro, un’arteria di un corpo che pulsa da millenni. Non è solo una strada, ma un labirinto di vite e di storie. Con la mia fotografia di strada a Varanasi, cerco di tuffarmi in questo groviglio di emozioni per allontanarmi dalla stanchezza e cogliere l’anima del luogo
Poi, un uomo si muove nella penombra colorata, un’ombra tra le pareti vivaci e scrostate. Sulla sua spalla, un sacco. Il mio sguardo si ferma su quel fardello, perché non è solo un sacco di cemento, ma il peso del mondo, il fardello che ogni giorno la vita impone e l’uomo accetta.
Il suo passo è lento, ma determinato. Non c’è fretta, non c’è lamento. C’è solo il ritmo antico della fatica. Il suo corpo sotto quel peso è un’ode al lavoro, una preghiera silenziosa fatta di muscoli tesi e fiato corto.
Guardo il muro alle sue spalle. Un tridente (il Trishul, l’arma principale del dio Shiva) e una scritta che, con l’aiuto del traduttore, capisco voler dire: MADRE. E lui, il figlio di quella terra, della “madre” India, porta il suo carico. Sotto lo sguardo della divinità e della madre, l’uomo non si spezza. Cammina.
In questa foto non c’è solo la durezza della vita, ma la sua profonda, ineluttabile connessione con il ciclo infinito di reincarnazioni che permea la spiritualità di Varanasi. L’idea di una fatica che non è fine a sé stessa, ma parte di un viaggio spirituale. Il fardello che porta non è solo fisico, ma un passo nel cammino verso una nuova esistenza. La “durezza” della vita, in questo senso, diventa un mezzo, un’opportunità per la crescita spirituale, un’eco di quel ciclo eterno di nascita, morte e rinascita.
Sono ancora con il cellulare in mano e il traduttore aperto… “MADRE”. Rimango così, con il rimpianto di non poter raccontare a mia mamma di questo posto.
