Bhutan..2002

Bhutan   novembre 2002

di Gianni Scaramuzzino

 

Domenica 10 – Lunedì 11

Partenza per Fiumicino e volo per Dheli via Francoforte. L’inizio del viaggio è segnato dal consueto fastidio della classe economica, in cui si sta come polli in batteria. A Dheli lo spazio ampio e confortevole dell’Hyatt ci ristora per una brevissima notte. All’alba di lunedì 11 novembre un aereo ci conduce a Bhagdogra. Dall’aereo il Brahamaputra, fiume immenso e selvaggio, ci dà la misura dell’Asia. Il suo corso, diviso in innumerevoli rami, non si coglie completamente neanche dall’alto; i fertili terreni alluvionali, coltivati a riso, appaiono dall’aereo come un pavè colorato, in cui il verde dei germogli si alterna al colore dorato delle spighe mature. Sui primi contrafforti delle grandi catene si arrampica  una spettacolare foresta che dispiega le fronde degli alberi in sequenza quasi verticale sui fianchi scoscesi delle alture. In lontananza, scintillano le cime innevate. Durante il volo, ad un certo momento il finestrino dell’aereo  inquadra, nitida e perfettamente centrata, la sagoma dell’Everest. A Bhagdogra in autobus comincia il viaggio vero e proprio verso il Bhutan. La strada è sconnessa;il fondo ha evidentemente sofferto delle piogge monsoniche e, in questa parte del mondo i lavori di manutenzione non sono considerati indispensabili. Passiamo attraverso rigogliose piantagioni di the, in cui  le donne stanno raccogliendo le tenere foglie da essiccare. Ci fermiamo e le raccoglitrici vestite nei sari colorati, truccate e ingioiellate come se fossero a una festa, ci circondano incuriosite. A sera inoltrata raggiungiamo il confine, che taglia in due la città di Jaigon. Uno scenografico arco di legno colorato segna l’inizio della parte butanese, che ha il nome di Phuntsholing. Come spesso in Oriente, il fasto convive senza apparente disagio con degrado e sudiciume. E’ giorno di festa per il compleanno del re e molti dei decrepiti edifici sono adorni di bandiere e lampadine colorate. Il traffico dei camion è intenso e costante: il commercio fra India e Bhutan passa esclusivamente su gomma. Il personale dell’albergo indossa un singolare e dignitoso costume tradizionale, che somiglia ad un kilt scozzese; c’è, evidentemente, un tentativo di organizzare i servizi turistici secondo uno standard di decoro e di efficienza.

Martedì 12

 La mattinata passa tra incomprensibili intralci burocratici per il rilascio del visto e pretestuose visite a squallidi templi buddisti. Ci muoviamo finalmente intorno a mezzogiorno. La strada è da brivido. Una serie di tornanti mozzafiato ci porta a duemila metri. Dalle curve si apre uno spettacolare panorama di risaie terrazzate con, in fondo, il letto immenso del fiume. In un punto la strada è quasi completamente franata: passiamo al millimetro su una cengia con un precipizio a destra e la roccia che incombe franosa a sinistra. Un nugolo di operai, uomini e donne, alcune delle quali con un bambino sulla schiena, si affannano a trasportare pietre, a spezzarle, a posarle per ricostruire la strada. Sembra impossibile compiere quest’opera titanica solo col lavoro manuale, senza l’ausilio di macchine. E ci sentiamo in colpa, con i nostri apparecchi fotografici, il nostro confortevole minibus, l’albergo che ci aspetta a sera. Poco dopo, l’autista si avvede che una delle ruote ha perso un bullone e decide di tornare indietro a cercarlo sulla strada. Incredibilmente, lo trova. L’accadimento induce alcuni dei viaggiatori, tutti napoletani, ad annotarsi i numeri da giocare al lotto. Poi ci fermiamo in un’officina( in ciò che qui si può considerare un’officina) per un controllo delle ruote. Il contrattempo ci dà la possibilità di inoltrarci in un villaggio che, come in Bhutan è consueto, si sviluppa in verticale sul fianco della montagna. Le case sono una via di mezzo fra baracche e capanne, sono povere e sporche, ma la gente ci accoglie con grande senso di ospitalità. Entriamo in un emporio e in una farmacia e, fra le povere merci, notiamo un computer collegato a internet. Incredibile come possano coesistere forme di vita tradizionale che già piegano verso il degrado e la più recente tecnologia. A sera, a Thimpu, è troppo tardi per poter realmente vedere la città. Pure, decidiamo ugualmente di fare quattro passi. La nostra cadenza napoletana attira una simpatica coppia di origine italiana che vive alle Hawai. Ci scambiamo e-mail e promesse di contatti, come accade quando ci si ritrova lontani dal proprio mondo.

Mercoledì 13

 La partenza, fissata per le nove, slitta naturalmente alle dieci. Però, nel frattempo, riusciamo ad entrare nello stadio per il tiro con l’arco. Qui l’abbigliamento tradizionale mostra il suo austero splendore: le belle stoffe, gli stivali ricamati non contrastano con i m moderni archi da competizione. Prima del tiro, ogni squadra esegue una sorta di danza, forse per intensificare sicurezza e concentrazione. Il pubblico assiste attento e composto. Gli arbitri si raccolgono intorno al bersaglio prima del lancio, sicuri che la freccia non lo mancherà.

Poi, finalmente, visitiamo il primo Dzong. E’ bello, anche se l’originaria struttura del XVII secolo è stata ampliata per ospitare uffici governativi oltre che il monastero. In sostanza, si tratta di una costruzione analoga ai nostri castelli medievali governati dal vescovo conte, centri religiosi e, al contempo, amministrativi. Durante la visita, cogliamo scene di vita semplice e, soprattutto, la grazia dei bambini.

Poi ci viene inflitto uno spettacolo tradizionale. Non che le esecuzioni di canti e danze siano di per sé sgradevoli o maldestre; il fatto è che non riusciamo a coglierne il significato, non sappiamo di quale mondo siano la rappresentazione. Inoltre, il teatrino sintetizza un mal riuscito compromesso tra confort occidentale e ambiente tradizionale: il pavimento è una sudicia colata di cemento dipinto in rosso, il sipario è un polveroso drappo di seta e i sedili sono un misto di divanetti in legno dalle consunte tappezzerie e seggiole di plastica ordinarie e spaiate. Dopo un pò, stufi, lasciamo maleducatamente la rappresentazione e imponiamo a Dorji, il capo delle nostre guide,di portarci al Simtokha Dzong appena fuori città. Lo raggiungiamo non senza difficoltà, perché è in corso la maratona internazionale del Bhutan e dunque il traffico è deviato.

Lo Dzong è bellissimo. E’ il più antico del paese e funziona ancora pienamente come monastero. Ogni famiglia, ci spiegano, offre al monastero un figlio che assicurerà la salvezza dell’anima a tutti i suoi parenti. I piccoli conversi sono dei deliziosi monelli che si prestano volentieri a farsi fotografare, si fanno scherzi mentre sono in posa, ci sorridono con occhi curiosi e accettano con gioia penne e caramelle. Le cucine del monastero mi ricordano quelle di un castello medievale che ho visitato l’estate scorsa in Italia: irrigidite in museo le una, vive e funzionanti le altre. Il fumo si leva dai pentoloni in cui bollono le verdure e lunghe strisce di carne sono appese ad essiccare. Le aule fungono anche da dormitorio: si dorme su semplici stuoie che durante il giorno vengono arrotolate. La stanza del maestro è adiacente e sembra un po’ meno spartana. Non ci sono vetri alle finestre; pensiamo quanto dura debba essere d’inverno la vita di questi bambini. Per giunta nella camera del maestro c’è un frustino, che ci fa rabbrividire.

Il monastero, che ospita la scuola di studi buddisti, rappresenta l’essenza del Bhutan, un paese in cui il fortissimo senso religioso riesce a sopravvivere alle incursioni della modernità.

Nel pomeriggio, finalmente, siamo in libertà e naturalmente, sciamiamo negli antri che fungono da negozio sulla strada principale ed unica di Thimpu, ai cui lati scorrono le fogne a cielo aperto. Oltre al piacere di comprare, entrare nei negozi ci dà la possibilità di un contatto umano diretto ed immediato che è forse il piacere più grande per chi viaggia.

Giovedì 14

Giornata di trasferimento a Tongsa. Come al solito, si parte in ritardo per una tappa di circa sei ore. In realtà arriveremo dopo ben dieci ore di viaggio. Ma il percorso è meraviglioso. Valichiamo due passi, l’uno, Dochula a 3.050 metri, l’altro, Pelela a 3.400. La vegetazione alterna tratti di foresta tropicale e di foresta montana, con pini e larici; sul fondo delle valli scorre un fiume limpido e tumultuoso. Ci fermiamo nell’animato mercato di Wangdi Phodrang, per fotografare  situazioni e persone che, come sempre si mostrano sorridenti e disponibili. Dai valichi si apre al vista dei ghiacciai himalaiani, scintillanti al sole.

L’arrivo, nel buio completo, è tragicomico. Sopra Tongsa  l’autobus si inerpica su una montagna, cui è abbarbicato il nostro lodge. Manca la luce e raggiungiamo i cottage a lume di candela, incespicando sui gradini irregolari. Le stanze sono baracche; attraverso le pareti comunichiamo a voce con i nostri vicini; non c’è segno di riscaldamento. Però le baracche affacciano sulla valle e ci corichiamo battendo i denti, ma con la promessa di uno splendido panorama.

Venerdì 15

Al mattino, dalla nostra finestrina lo spettacolo è veramente toccante. A sinistra, le vette aguzze ed innevate, davanti a noi le montagne coperte di vegetazione, sul fondo della vallata il fiume il cui rombo ci arriva attutito e, su uno sperone terrazzato, appena sotto di noi, un imponente Dzong dai tetti gialli. La simbiosi col paesaggio è perfetta: in questo alloggio scomodo ed approssimativo ci sentiamo dentro il Bhutan, partecipi della sua civiltà.

Visitiamo lo Dzong di Tongsa, antico ed imponente, al di sopra del quale si erge un’antica torre di avvistamento. Lo Dzong è un’oasi di pace. Si respira all’interno un clima di religiosa armonia. I monaci stanno esercitandosi in una danza circolare al ritmo dei piatti di ottone; al centro un monaco istruttore dirige i movimenti, attorno a lui i giovani monaci seguono la musica. Entriamo anche in uno dei Lhakang, i santuari, in cui sono venerati Bhudda o i suoi santi discepoli. Poi, saliamo, con una breve e ripida passeggiata, alla torre, da cui si gode il panorama generale.

Dopo, comincia il viaggio di trasferimento da Tongsa a Jakar, nella valle di Chumey. Le case dei villaggi sono in pietra e legno dipinto., la natura è lussureggiante; dopo il valico di Yutong La, a 3.400 metri, entriamo in una valle alpina, una sorta di Shangri-la. Ci fermiamo, attirati dal paesaggio e, soprattutto, dalla gente; fotografiamo un gruppo di donne e bambini, intenti a sminuzzare la pietra; hanno tratti somatici diversi da quelli delle nostre guide, portano vistosi orecchini e un cerchio d’oro al naso: ci dicono essere di origine nepalese. E’ sorprendente che le donne che svolgono lavori così umili e faticosi abbiano un portamento da regine. Certo, ci stringono il cuore i bambini, allevati in mezzo alla polvere che vivono in precarie baracche di paglia malamente ricoperte da un telone cerato.

Entriamo poi in una fattoria: i bambini spuntano da tutte le parti ed invano gli adulti tentano di tenerli a freno. Sono comunque tutti gentili ed ospitali ed ignorano ancora il malcostume dell’accattonaggio. Questo luogo ha l’incanto, per noi, di un ritorno al passato, passato con cui convivono il telefono ed il computer.

L’alloggio cui arriviamo a sera è più confortevole del precedente. Abbiamo anche tempo per una passeggiata in paese, che consiste in una fila di empori- spelonca, lungo una strada sterrata; però, in alcuni di questi spacci si trovano oggetti sorprendenti; evidentemente, i contadini hanno l’abitudine di barattare roba vecchia in cambio forse di generi di prima necessità, cosicché in improbabili tuguri si possono comprare autentiche antichità.

Sabato 16

 Visitiamo Kurje Lhakang, un santuario antico, dalle pareti costruite con pietre sovrapposte a secco. Belli gli intagli lignei e i tetti sormontati da guglie d’oro. Intorno al santuario c’è un recinto con le ruote di preghiera, le più grandi delle quali fanno risuonare delle campanelle che rintoccano con rasserenante cadenza. Dietro il santuario, una casa di contadini ci offre una scena di pace agreste: i bambini intrecciano stuoie di bambù mentre i loro cagnolini ruzzano intorno. I più devoti sono i vecchi, che fanno il giro del santuario rigorosamente in senso orario e mettono in movimento le ruote di preghiera. Andiamo poi a Jambey Lhakang, santuario che risale al settimo secolo, grande e bello. Dorji ci ha spiegato che i siti su cui sorgono i templi sono individuati da astrologi, che conoscono i nodi magnetici della terra. Il fedele, entrando nel santuario e girando più volte in senso orario, dovrebbe sentire come l’energia fluisca dalla terra e permei il suo corpo. In verità, anche noi, entrando in questi luoghi, avvertiamo un immediato senso di pace. Infine, con una bella passeggiata a piedi, raggiungiamo il monastero di Tamshing, anch’esso di origine antica. Il Lhakang centrale ha un bell’altare di legno intagliato circondato da statue policrome. Durante la passeggiata, passiamo su un ponte tibetano e ci fermiamo a guardare, meravigliati, le donne che lavano i panni nel fiume; Dorji non può fare a meno di chiederci perché ci interessi tanto veder fare il bucato. Dobbiamo spiegargli che in Italia i panni non si lavano più al fiume, ma in un aggeggio meccanico che si chiama lavatrice. Nel primo pomeriggio visitiamo un sorprendente caseificio: il prodotto principale sembra proprio formaggio svizzero. L’enigma si risolve quando sappiamo che il fondatore è stato per l’appunto uno svizzero che volle importare qui le tecniche di lavorazione della sua patria. Lo spaccio della piccola azienda vende anche ricottine e caciottine fresche, che i medici del gruppo ci impediscono di mangiare per timore di infezioni batteriche. Comperiamo però e assaggiamo delle bottigliette di grappa di mele simile a quella che distillano artigianalmente i contadini delle nostre Alpi.

Subito dopo visitiamo Jakar Dzong. Questi edifici sono tra loro simili ma diversi; Jakar è austero ed imponente, ma lo animano i vivacissimi monaci bambini, la cui stupefatta curiosità di fronte alle immagini della videocamera digitale, in cui si riconoscono, ci incanta e ci gratifica. Nel santuario centrale c’è una meravigliosa rappresentazione del dio della morte in amplesso con una figura femminile, simbolo del ricongiungimento dell’individuo col tutto. Eros e Tanatos sono qui rappresentati in forma apparentemente ingenua che però sa manifestarsi come commovente simbolo della vicenda umana ed universale. Nel tardo pomeriggio, mentre quasi tutti si disperdono nel villaggio, Lanfranco va in cerca del locale ospedale. Al mattino, prima di partire per la nostra escursione, abbiamo chiesto a due scolare perché non fossero a scuola e loro, invece di invitarci ad occuparci dei fatti nostri, ci hanno timidamente risposto che stavano andando all’ospedale perché una di loro si sentiva poco bene. La curiosità di Lanfranco come medico  gli ha imposto di capire che cosa significhi ospedale in un villaggio butanese. Scopre che si tratta della casa del medico, fornita di quattro letti e di una scarna e primitiva attrezzatura per le emergenze che sembra risalire alla seconda guerra mondiale. Ma ciò che più lo colpisce è la gentilezza del medico che accoglie con gioia il collega venuto da lontano, gli apre la sua casa e gli mostra il poco di cui dispone.

Domenica 17

Partiamo alle 6.30. La giornata è tersa e luminosa; ripassiamo per il valico di Yutong La, in direzione di Tongse, dove rivediamo lo Dzong con la torre di avvistamento. La strada, strappata al fianco della montagna, segue le sinuosità delle pendici, rivestite da una foresta in cui convivono bambù, sequoie, abeti e alberi tropicali dalla chioma lussureggiante. Ogni tanto il verde è illuminato da un larice le cui chiome sono dorate dall’autunno o dal rosa di una tardiva fioritura. Cascate zampillano dalle rocce e si gettano nel fiume che rumoreggia nel fondo valle. Nell’uscire dalla valle di Chumsey ci si ripresenta, in tutta la sua imponenza, lo Dzong che ne domina l’imbocco da uno sperone trasversale. Siamo ben lieti di poter ammirare questo panorama che, due giorni prima, il calar della notte ci aveva sottratto. Superiamo poi il valico di Pelela e rivediamo i lontani ghiacciai scintillanti al sole. Dopo circa otto ore di viaggio, raggiungiamo finalmente Wang Du Phodrang, dove la valle si apre e i fianchi delle montagne, meno scoscesi, sono stati tagliati in terrazze che scendono sinuose fino al fiume, creando un paesaggio più dolce. I contadini sono al lavoro per falciare il riso, legarlo in mannelli e vagliarlo; su tutto domina lo Dzong. Certo, secondo il nostro metro, il Bhutan è un paese povero: i contadini vivono in case di pietra e legno che, all’esterno, sono decorate vivacemente ed intagliate con gusto, ma, all’interno, sono tuguri bui e privi dei servizi più elementari; e c’è di peggio. Gli operai che lavorano alla manutenzione delle strade vivono in baracche o in precari ricoveri di bambù intrecciato. Sono rarissime le case con uno standard accettabile per noi europei. I nostri alloggi, con rubinetti che perdono, sciacquoni che hanno bisogno di riparazioni estemporanee, acqua calda e luce elettrica elargite a singhiozzo, qui sono alberghi di lusso. Eppure, la popolazione è gentile ed ospitale, apre le case alla nostra curiosità, si lascia fotografare sorridendo. Evidentemente l’esigenza della bellezza è anteriore a quella della comodità ed è più appagante. L’aspetto più singolare, nella decorazione delle case, è la presenza di enormi e realistici falli eretti, scolpiti o dipinti che decorano quasi tutte le abitazioni private. Hanno un significato apotropaico e di culto della fecondità, come nel mondo greco romano, dove però venivano rappresentati in forma più stilizzata. E’ comunque singolare questa coincidenza di simbologia religiosa tra civiltà tanto lontane.

Al tramonto scorgiamo l’imponente Dzong di Punaka, che sorge lungo il fiume. Ci spiegano che ha più volte subito delle inondazioni a causa delle piene del fiume. E’ grande, con tre torri e i cortili circondati da portici; appare meno severo, meno austero degli altri e beneficia di un clima più mite. Infatti  Phunaka è la capitale invernale del Bhutan  e nel suo grande Dzong svernano anche i monaci dei conventi che si trovano in quota.

Lunedì 18

Ripassiamo davanti allo Dzong di buon mattino: la nebbia si alza dal fiume e scopre il grande edificio che risplende di rosso e di oro.

Percorriamo una strada lungo il fiume lambito dalla corrente che, finite le piogge, scorre limpida e tranquilla, sulle cui sponde, terrazzate a risaie, i contadini sono al lavoro. La strada sale e scende sul fianco della montagna in un paesaggio splendido, in cui le trasformazioni operate dall’uomo si fondono armoniosamente con la natura. Tocchiamo nuovamente il passo Dokhula: la giornata è limpidissima ed ancora più candide ed imponenti si stagliano le cime himalaiane. Ripassiamo per Thimpu, che ora, pur con le sue fogne a cielo aperto e i suoi negozi tugurio ci sembra una vera città. Visitiamo un bel museo della cultura butanese, che riproduce una casa tradizionale con tutti i suoi arredi. E’uguale a quelle che abbiamo visto lungo il viaggio e in cui siamo entrati, ma è nuova e pulita. Fra gli ultimi acquisti comperiamo all’ufficio postale, nel settore dedicato ai turisti, i bellissimi francobolli per i quali il Bhutan è celebre nel mondo. E apprendiamo con sorpresa che provvede ai bozzetti e alla stampa l’Istituto Poligrafico dello Stato italiano. Poi riprendiamo il viaggio per Paro. Qui sorge l’aeroporto sulla cui pista, mancando le strade adatte, il re fa correre la sua Ferrari, qui c’è l’unico ospedale del Bhutan e la gente è più abituata alla presenza degli stranieri. Arriviamo appena in tempo per visitare il Museo nazionale del Bhutan, distribuito sui sei piani di un’antica torre cilindrica. Gli oggetti e le ambientazioni sono belli e suggestivi e meriterebbero più tempo di quello che abbiamo a disposizione.

Martedì 19

Al mattino è prevista, per i più temerari, un’escursione a cavallo in montagna per raggiungere lo Dzong di Taktsang. Partiamo presto quando la nebbia ancora grava sui monti. I piccoli cavalli, avvezzi alla frugale magrezza dei butanesi, sudano sotto il peso dei nostri corpi ben nutriti; forse per vendetta, come il mulo di don Abbondio, camminano sul bordo del precipizio, insensibili ai nostri tentativi di guidarli all’interno del sentiero. Dopo circa due ore di salita raggiungiamo lo sperone dove il sentiero diventa troppo impervio per proseguire a cavallo. Smontiamo, mentre sulla nostra testa il vento, che si è appena levato,  agita le bandiere di preghiera di cui i devoti pavesano i valichi montani e, in generale, i luoghi di più suggestiva ed intensa sacralità; e all’improvviso la nebbia si alza rivelando, dietro lo schermo multicolore delle bandiere,  lo dzong che si erge, severo come un castello, abbarbicato alle rocce. Siamo tentati di credere alla leggenda di Guru Padsambhava, fondatore del monastero, trasportato quassù sul dorso di una tigre volante. Nel pomeriggio, visitiamo lo Dzong che sorge in città, dove fu girato, in parte, il Piccolo Bhudda di Bertolucci. Il monastero è imponente e colorato; i piccoli monaci, sorvegliati da un arcigno maestro, pregano e cantano in crescendo; quando il canto è al culmine, risuona la nota profonda della tromba tibetana, scandita dal grave rimbombo dei tamburi e dal tinnulo croscio dei piatti. La melopea viene ripetuta più e più volte. I monaci, avvolti nei mantelli rossi, siedono sul pavimento di legno della grande sala. Il sole pomeridiano, penetrando obliquo nell’ambiente in penombra, attraverso le finestre che ne dividono e scandiscono i raggi, accende di chiazze purpuree le tonache; il pulviscolo, come una cipria dorata, illumina i volti dei monaci bambini; brillano gli occhi irrequieti ed interrogano, vigili e curiosi, gli intrusi che ricambiano gli sguardi. Purtroppo non ci è consentito fotografare e cerchiamo di fissare almeno nella memoria la magica suggestione delle luci e dei suoni.

Quando la preghiera termina, i piccoli monaci sciamano correndo nel cortile, dove finalmente possiamo fotografarli e scambiare con loro un sorriso.

Mercoledì 20

 Arrivo a Kathmandu in tarda mattinata. Abbiamo la fortuna di alloggiare in un albergo veramente straordinario, il Dwarika. La famiglia dei proprietari, che gli dà nome, ha raccolto con amore e preveggenza frammenti di edifici tradizionali in rovina ed ha ricostruito, in uno splendido parco, una serie di ambienti in mattoni rossi e legno intarsiato, nello stile di un nobile palazzo nepalese, che armonizza il rispetto per la storia e la cultura del Nepal con tutto ciò che di accogliente e confortevole può offrire l’Occidente. Nelle vaste camere i tendaggi, le coperte, le tappezzerie sono tutte in tessuti artigianali; il lusso si esprime nel silenzio e nella sobrietà squisita dell’arredo e del decoro. La cena tradizionale, che ci viene offerta nella sala da pranzo dai tavolini bassi e dagli accoglienti cuscini, è un esempio perfetto di ospitalità orientale: esili cameriere nell’aggraziato costume nazionale versano dai bricchi niellati le bevande nei calici sottili senza farne traboccare una  goccia; il servizio è rapido e discreto e, alla fine, ciascun commensale riceve un piccolo oggetto di terracotta in ricordo della serata.

Giovedì 21

 Visita a Kathmandu e dintorni. Il Nepal, rispetto al Bhutan, è trafficato e caotico, ma conserva siti ed ambienti belli e suggestivi, che il governo nepalese, con l’aiuto dell’Unesco, cerca di salvaguardare o recuperare. Splendida oasi di serenità è la piazza di Bakthapur, sapientemente restaurata; animatissima invece Durbar Square, affollata di venditori tibetani che espongono le loro merci per terra, su tappeti e coperte. In generale, gli edifici antichi, in mattoni e legno finemente intagliato e scolpito, sono splendidi anche se spesso prossimi alla rovina. I vasai, gli intagliatori, i sarti lavorano in vie e piazze che testimoniano una secolare continuità di gusto e di perizia artigiana. Peccato che l’irruzione della modernità sia stata spesso brutale: traffico ed inquinamento soffocano le strade non vietate ai veicoli e snaturano profondamente l’ambiente. Dispiace anche che nubi minacciose si addensino sulla stabilità politica di questa regione. Talvolta sembra che, per i viaggiatori, il mondo vada riducendosi.

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Ringrazio Gianni che mi ha inviato questo bel diario di viaggio…ha anche un bel sito  internet assieme a suo fratello raggiungibile all’indirizzo: www.giellescaramuzzino.it

 

@genrico@

Vagabondo per natura, cittadino del mondo,appassionato di viaggi,reportage,fotografia, cultura asiatica e tibetana. Pagina ufficiale pubblica su facebook: https://www.facebook.com/lavitaeunviaggio

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