Trekking in Zanskar 2007

ZANSKAR  2007

di Gianni Scaramuzzino

 

 

19/20 giugno

 Italia- Delhi

Siamo giunti a destinazione. Dopo un viaggio veramente lunghissimo, sono in un giardino verde e fresco, il che è davvero apprezzabile dopo due voli, l’arrivo a Dheli ed una mezza giornata buona di macchina attraverso la regione del Punjab a nord di Dheli. Il viaggio è filato liscio. Un po’ deludente l’aeroporto di Kuwait City dal quale ci si aspettava una specie di impero del consumismo mediorientale. Invece, tra lavori in corso e spazi angusti la sosta, tra l’altro prolungata da un ritardo dell’aereo, è trascorsa più che altro osservando l’umanità varia e interessante che affollava l’aeroporto: una donna velata che parla tenendo il telefonino sopra la stoffa che le copre il volto, una ragazza con occhiali da sole modaioli appoggiati sopra il velo; è soprattutto il contrasto tra modernità e quello che ai nostri occhi sembra un retaggio medievale a colpirci particolarmente.

Poi il volo da Kuwait a Dheli, affollato e pieno di indianini rumorosi che non fanno altro che parlare senza sosta e che poi, una volta sbarcati, cercano di superare la fila dell’immigrazione causando un simpatico disordine che ben si addice al luogo. Fuori dell’aeroporto, molto più tranquillo di quanto non ricordassi, ci attende Johann con un autista tibetano dall’aspetto bizzarro e anche un po’ equivoco.

Attraversiamo la città, stranamente priva di vacche e più ordinata di tre anni fa. Poi comincia un lungo viaggio nella pianura a nord di Delhi. Dormo spesso e così fanno anche gli altri, esausti. Mi risveglio per il pranzo (che per noi è una colazione) in un “autogrill” con giardino. E’ il primo contatto col riso, che ci accompagnerà per tutto il viaggio, e con delle gustose lenticchie piccantissime: certo non è il massimo per prima colazione.

Arriviamo di pomeriggio a Naggar, ai piedi delle prime colline. Siamo in un palazzo di fascino, con un bel giardino in perfetto stile indiano e, dunque, con quell’immancabile tocco di fascinosa sciatteria.

21 giugno

Naggar –Manali

Dopo un sonno mai così desiderato ed apprezzato ci incontriamo per la prima colazione. Nota caratteristica è un enorme vassoio di porridge biancastro che tutti quanti evitiamo accuratamente: è lo spunto per parlare male della cucina inglese, tema sempre caro a italiani  e francesi.

Dopo un piccolo inconveniente alla nostra jeep, brillantemente risolto da un meccanico – carburatorista – tutto fare del luogo, cominciamo il lungo tragitto verso Manali. Si sale gradualmente lungo una valle che diventa sempre più stretta. Il paesaggio è suggestivo perché in una cornice montana si vede un fiume color fango, tropicale, e le pareti rocciose sono coperte da vegetazione anch’essa tropicale: palme, manghi, fiori colorati. Poi, continuando a salire, la foresta diventa bellissima. Le montagne svettano, coperte di cedri e pini altissimi e profumati. Cambia decisamente anche l’aspetto dei villaggi, che ora sono in legno e pietra, perfettamente inseriti nel paesaggio. Osservare dall’alto questi agglomerati di case posti sul fondo della valle, resa un po’ misteriosa dalla foschia, mi ricorda, pur non essendoci mai stato, un paesaggio del sud est asiatico.

E la sensazione è resa ancora più viva dalle persone che in basso, lontano si vedono lavorare nelle risaie verdi semi allagate.

Per arrivare a Manali attraversiamo una serie di villaggi vivaci ed operosi: fabbri ferrai, fruttivendoli, braccianti che portano carichi imponenti sulle apparentemente esili spalle. La montagna è certamente più dignitosa e meno misera della vasta pianura vista ieri, costellata di tuguri e di tende precariamente sistemate ai bordi delle strade sporche e polverose. A Manali, dopo una giornata intera di viaggio, troviamo una cittadina affollatissima di villeggianti indiani in cerca di aria fresca; ed in effetti il clima è gradevole e la gente sorridente ed ospitale. Siamo un po’ meno stanchi di ieri, anche se un bel sonno ristoratore ci serve per recuperare energie in vista del mini trekking di domani: finalmente cominceremo ad usare le gambe ormai atrofizzate dopo tre giorni di spostamento.

Dimenticavo: abbiamo visto un sacco di babbuini; l’impressione è sempre la stessa: ti osservano tenendo per mano i piccoli e ti sembra proprio che a guardarti negli occhi sia un tuo simile.

22 giugno

Manali

E’ stata una giornata intensa. Dopo una prima colazione avventurosa, perché servita con la puntualità e la precisione indiana, ovverossia con un’ora di ritardo, senza posate, senza te e quant’altro, nonché con un ottimo ketchup al posto della marmellata, partiamo per un trekking nella valle di Manali, non prima di aver fatto la spesa con Johann in città.

Entriamo in un bosco di cedri altissimi ed imponenti nel quale sorge un bel tempio antico di legno e pietra. L’ambiente mistico, anche grazie agli altissimi alberi che fanno filtrare poca luce è reso più allegro e caotico da gruppi di indiani in gita, nonché dai consueti postulanti che cercano di propinarci simil zafferano e da incantatori di cobra che, più che incantare, stordiscono i malcapitati rettili con motivi strepitanti e stonati. Johann li scaccia con decisione parlando un fluente indi.

Attraversiamo dei villaggi; alcuni sono suggestivi: le case antiche in legno che al piano terra ospitano le stalle con gli animali, l’assenza di veicoli, il riso che secca al sole mi fanno respirare meglio e rilassare. Le persone, la maggior parte contadini, tra i quali bambini, anche piccoli, sono di una cordialità  e di una gentilezza estrema. Altri villaggi sono invece ricettacolo di occidentali nulla facenti che fanno finta di essere hippy. Tutti vestiti allo stesso modo, storditi dall’hashish, si svegliano tardi per andare a fare brevi passeggiate, come ci spiega Johann. Passano una quindicina di giorni in questo modo in un villaggio e poi vanno in un’altra località: rimangono in India anche per sei mesi. E come si mantengono? Beh, paga papà ovviamente.

Usciti dai villaggi, ci arrampichiamo fino ai piedi di una cascata molto alta e bella. Un passaggio è periglioso ma la vista e il refrigerio offerto dall’acqua vaporizzata valgono il brivido. Sul posto veniamo agganciati da un tale che vuol venderci hashish; in effetti se ne vedono piante, anche di notevoli dimensioni, ad ogni angolo. Johann gli fa credere che papà è il capo della polizia italiana e l’improvvisato pusher bucolico desiste sorridendo.

Dopo una piacevole colazione sulla riva di un ruscello, conclusa con frutta squisita, tra cui dei prelibatissimi manghi freschi, terminiamo il nostro giro visitando un bel tempio vicino al quale si trovano delle vasche di acque termali sulfuree, nelle quali nessuno di noi ha il coraggio di tuffarsi per la temperatura rovente, il colore dubbio dell’acqua ed il notevole affollamento.

Arriviamo abbastanza stanchi a Manali, ma Johann ci porta a vedere la manifattura dove la cooperativa di donne tibetane con la quale collabora fa scialli, sciarpe e tappeti. Ovviamente nessuno di noi si può esimere dall’acquistare gli oggetti, tra l’altro belli e particolari; il pensiero delle signore rimaste a casa famelicamente in attesa di doni sprona ancora di più all’acquisto selvaggio. La sera siamo invitati ad un matrimonio nel villaggio di Johann. I festeggiamenti durano tre giorni, ci spiegano, e stasera è il primo giorno, quello preliminare, perché il matrimonio avverrà domani. E’ tutto il villaggio che, a turno, si reca a casa dello sposo a mangiare. Seduti a terra a gambe incrociate (ma poi Massimo cede e si sdraia senza ritegno per stare più comodo) mangiamo, usando solo la nuda mano destra, intingoli a base di riso con salsa di ceci, fagioli, lenticchie, yogurt. E’ tutto buonissimo e mangiamo goffamente sotto gli occhi divertiti degli invitati che siedono di fronte, evidentemente non abituati a vedere quattro persone talmente incapaci da non saper mangiare con le mani. A me, a dire il vero, mangiare in questo modo dà una grande soddisfazione. Subito dopo mangiato si scatta in piedi tutti insieme e si rincasa, senza che ci sia un momento in cui gli invitati socializzino tra di loro. Per noi è strano andar via senza aver conosciuto né gli sposi né i padroni di casa. Ma tant’è: paese che vai usanze che trovi. Il ritorno a Manali è divertente per via di un ingorgo catastrofico nonostante l’ora già tarda: macchine, camion, moto, apecar, asini randagi aggrovigliati gli uni con gli altri, il tutto tra un concerto di clacson striduli che ci stordiscono.

23 giugno

Manali – Darcha

 Inizio del trekking.

Siamo al campo. Io sono in tenda e sarò conciso perché il mal di montagna si fa sentire. E’ stata una giornata impegnativa. Un trasferimento bello e suggestivo, ma davvero estenuante, durato circa sette ore su una strada disastrata. Divertente la scena, al passo Rhotang, oltre 4.000 metri, dove tanti indiani in vacanza cercano il contatto con la neve e noleggiano attrezzature da sci, per noi obsolete, per poi immortalare lo storico momento. C’è chi predilige un abbigliamento “tecnico” con tute variopinte e chi invece preferisce ben più vezzosi pellicciotti, sia da uomo che da donna, disponibili anche in versioni tigrate e leopardate.

Dal passo si scende giù verso Darcha: la strada è davvero disastrata, ma finalmente si aprono scenari di alta montagna con un cielo blu nitidissimo. Non c’è più il traffico dell’altro versante con i conseguenti sorpassi da brivido a pochi centimetri dal precipizio. In compenso gli scossoni continui scombussolano un po’ tutti, con me e Francesco che ci contendiamo la palma del più sofferente.

Dopo una breve sosta in un dhaba de luxe in quel di Keylong, arriviamo a Darcha dove incontriamo Tashi che saluta calorosamente Johann, papà e Massimo e poi conosce me e Francesco. Mi colpisce la sua dentatura: accecante tanto è bianca, forte, sana. Ha un sorriso che infonde sicurezza e serenità e una pelle e un fisico forgiati dal sole e dal clima della montagna su cui vive. Si arriva, dopo una decina di chilometri, su una strada in costruzione, cui lavorano famiglie di nepalesi che vivono in condizioni ai nostri occhi drammatiche, al punto di partenza del trekking. Scendiamo dalla macchina e i bagagli vengono scaricati dal pick-up che ci ha seguito. Oltre a noi, Johann e Tashi ci sono un amico di Johann addetto alla cucina, Cham Chu, ed un ragazzo nepalese, Padan, esperto in scalate che ci darà una mano. Poi ci sono due uomini addetti agli otto cavalli che trasporteranno il vettovagliamento e un cavallo di soccorso.

Le nostre condizioni, sia per il viaggio sia per l’altitudine (3.620 metri) sono un po’ critiche: così non possiamo far altro che osservare con un pizzico di invidia i locali che zampettano qua e là per montare le tende e preparare il campo. Siamo a fondo valle. Il paesaggio è aspro, sassoso con un fiume che scende impetuoso e cascate con salti spettacolari. Qua e là fanno capolino picchi innevati che risaltano ancora di più nel blu profondo del cielo come un orso bianco tuffatosi in mare.

La cena è buona; il cuoco amico di Johann prepara una zuppa di verdure con pasta fresca davvero saporita. Peccato che le condizioni un po’ precarie del gruppo non permettano di gustarla appieno. Poi andiamo tutti a dormire poco dopo le otto, quando cala la notte. E’ la prima volta che mi accorgo di avere un oggetto inutile al polso; la giornata qui è scandita solo dalla luce e dall’oscurità.

24 giugno

  Primo giorno di trekking.

Dopo uno splendido sonno di dieci ore (per fortuna!) mi sveglio alle 6 del tutto ristabilito dai malanni di ieri. Soprattutto non ho più la nausea e non mi sento stordito. Dopo la colazione accompagnata dal primo caffè in moka, molto apprezzato da tutti, partiamo. Per oggi sono previste circa quattro ore di cammino e un po’ meno di 400 metri di dislivello. La passeggiata fila liscia. Certo, si sente che siamo a quasi 4.000 metri di quota, ma, tutto sommato, ci difendiamo, pur non potendo emulare gli scatti fulminei di Johann che ogni tanto fugge avanti per girare il suo filmino, lasciandoci  sotto la rassicurante protezione di Tashi. Arriviamo nella radura in cui ci accamperemo verso l’una dopo aver percorso il sentiero lungo il fiume, che abbiamo anche dovuto guadare camminando sui sassi come delle provette giovani marmotte; con un Piazza in versione “gran mogol” ce la siamo cavata alla grande. Ci fermiamo, dunque, in una bella radura verde solcata da un placido ruscello e circondata da un lungo muretto a secco. Dopo il pranzo, rapido e non cucinato, Johann con gli altri monta il campo, mentre noi ci dedichiamo a vari servizi, tra cui un bucato al fiume di altri tempi. Poi, riposo ed una bella e buffa doccia rinfrescante con l’acqua del ruscello, guardando alla valle che ci aspetta domani con un certo timore, mentre io sogno una partitella a pallone su questo prato a 4.000 metri.

25 giugno

  Secondo giorno di trekking.

Oggi siamo arrivati al campo in cui si pernotta prima di affrontare il temuto e temibile Shingo-la. A dire la verità scrivo il 26 perché ieri sono stato poco bene. E allora parliamo al passato; La giornata era cominciata bene; nonostante l’altitudine salivo spedito assieme a Johann e così facevano gli altri, anche se con un passo più lento. Tra varie soste durante le quali ci dilettavamo a misurarci l’un l’altro le pulsazioni, pratica a cui Tashi si sottraeva, risalivamo un vallone austero, caratterizzato da morene e pietraie imponenti. Volgendo lo sguardo all’insù, e meglio ancora con il binocolo, si ammiravano ghiacciai con pareti verticali: mi sono stupito nel vedere queste formazioni di ghiaccio che ai miei occhi rimangono attaccate alla roccia per miracolo, nonostante alcuni impressionanti crepacci che solcano i ghiacciai in verticale.

Arrivavamo al campo, piuttosto inospitale, e dopo 5 minuti cominciava a piovere intensamente ed a fare freddo. Di sera sono stato male, ma non mi sono preoccupato. Piuttosto mi è dispiaciuto veder l’ansia negli occhi degli altri, forse acuita dal timore di doversi trattenere un giorno in più in questo campo aspro e sassoso a causa del rompiscatole seminfermo che sta scrivendo.

26 giugno

 Terzo giorno di trekking.

Mi sono ristabilito. Dopo una notte tranquilla e riposante, partiamo per il passo Shingo-la. Dovrebbe essere il giorno più duro. Si arriva ai 5.100 metri o più del passo coprendo 500 metri di dislivello per poi scendere di nuovo e raggiungere finalmente la regione dello Zanskar. Sto meglio certo, ma il fatto di aver mangiato poco o nulla e di aver assimilato ancor meno il giorno precedente mi rende debole e così, quando inizia la salita vera, monto a cavallo seguendo il consiglio di Johann. Mi dispiace non poter salire a piedi con tutti gli altri, ma forse sono davvero troppo debilitato per affrontare tale sforzo. Il cavallino nero che eroicamente mi porta mi fa risparmiare molta fatica ma non certo più di qualche brivido. Il sentiero è stretto e franoso ed è davvero un miracolo (o perlomeno così appare ai miei occhi) che il quadrupede non cada nel burrone portandomi con sé. Paura a parte, non essendo in debito di ossigeno, apprezzo meglio il paesaggio che pian piano si trasforma. Non c’è più neanche un filo d’erba: ghiacciai maestosi, di un bianco accecante ora che quasi li tocco. Il tempo è bello e non minaccia pioggia. Guardando dall’alto (troppo) della sella, osservo con apprensione il sentiero davvero ripido che attende gli altri.

Prima dell’arrivo al passo, si gira tutta la sella, evidentemente mal fissata dal mandriano, e cado da cavallo di schiena, fortunatamente senza conseguenze.

L’arrivo al passo è emozionante. C’è un piccolo pianoro con ghiaccio e neve che, sciogliendosi, formano un piccolo laghetto. Oltre l’ultima salitina, si intravedono altre montagne. Tira il vento tipico di tutti i passi, teso e sibilante. C’è abbastanza neve e alcuni ruscelli; per rendere ancor più “preistorica” la scena, il mandriano, un nepalese basso e tarchiato, che “tiene al guinzaglio” il mio prode cavallo, si toglie scarpe e calzini e attraversa a piedi nudi neve, ruscelli e pietraie. Sono allibito.

Dopo il passo, aspetto, in un posto riparato, l’arrivo degli altri. E’ con grande sollievo che vedo tutto il gruppo sbucare vicino al muro di preghiera e alle bandierine colorate che si trovano sul passo. Sono tutti  molto provati, ma stanno bene.

La discesa, nella prima parte è ripida: si alternano tratti innevati nei quali sprofondiamo e scoscese pietraie scivolose, ma la verve di Johann e le mani forti e sicure di Tashi ci cavano di impaccio nei passaggi più perigliosi. Poi la discesa diventa dolce e ci fermiamo a mangiare. Ma il paesaggio cambia repentinamente: è una montagna diversa, desertica e colorata; ci sono due pareti giallo-rosate verticali che sovrastano il lato opposto della valle che ci apprestiamo ad imboccare; ed è la valle che percorreremo a piedi da domani in poi.

Ora siamo scesi un po’ di quota. Ci fermiamo a mangiare su un prato verde ed è di nuovo una natura più rassicurante quella che ci circonda. Poi l’ultimo tratto di discesa. Johann si scatena e se la fa tutta di corsa tagliando giù dritto per il pendio che mena al campo. Dall’alto, così come dall’attendamento, la vista toglie il fiato: la valle è ampia e profonda, sovrastata da montagne di varie forme e colori. La parete verticale scorta prima ora ci appare in tutta la sua imponenza. Sembra che qualcuno abbia preso una cima dolomitica per metterla qui; raggiunge e supera i 5.000 metri, ci dice Johann. Più giù la valle è per lo più desertica e le montagne sono rosse, verde scuro con picchi e creste aguzze e taglienti. Il tutto dà l’impressione di una vastità sconfinata anche per l’assenza di villaggi o insediamenti. Oltre al nostro gruppo, c’è con noi al campo solo un americano, escursionista solitario, che fa il nostro stesso itinerario; è stato simpaticamente ribattezzato Big Jim per il fisico palestrato e per il suo incedere sicuro e un po’ rigido alla robocop.

Tutti noi, sebbene molto stanchi, contempliamo a bocca aperta il panorama di una bellezza sconcertante. E la cena, una calda zuppa tipica dello Zanskar preparata da Tashi, ci ristora e ci riscalda, dopo l’ormai consueta partita a scala quaranta tra me, papà, Francesco, Massimo e Johann.

27 giugno

Quarto giorno di trekking

La giornata è bellissima. Un cielo blu intenso ci saluta al risveglio e appena alzati già siamo di nuovo ad ammirare lo spettacolo della valle. Il tragitto di oggi è piano; si costeggia tutto il fiume lungo il fondo valle e, anzi, si scende gradualmente e, alla fine della giornata, saranno 200 i metri di dislivello negativo coperto. Si attraversa il fiume gelido a piedi nudi con l’acqua fino alle ginocchia e poi si cammina agevolmente ora tra l’erba verde, ora tra i sassi. Ogni tanto alziamo lo sguardo indietro, per ammirare i ghiacciai che circondano il passo affrontato ieri; ma quando mi giro, è la solita montagna di tipo dolomitico che mi lascia stupefatto. Ora la si vede un po’ di taglio, in tutta la sua grandiosità. E l’immagine, pur allontanandosi, non scomparirà mai dalla nostra vista, continuando ad accompagnarci fino all’arrivo al campo. La giornata è stata lunga, ma non faticosa come quella di ieri, il che ci ha fatto ammirare non solo la “dolomite”, ma tutta la splendida valle. Abbiamo incrociato una carovana di yak portati al pascolo in alta montagna. Suggestiva la scena senza tempo di questi bizzarri bovini pelosi con lunghe corna condotti da mandriani seminomadi. E in effetti la prima parte della valle è caratterizzata qua e là da minuscoli insediamenti a mezza costa. Johann ci spiega che si tratta di pastori che si spostano insieme al bestiame: cavalli, pecore, yak, zou, un incrocio tra mucca e yak.

Poi finalmente arriviamo a Kargiak, il primo villaggio  che incontriamo sulla nostra strada dopo tre giorni. L’opera dell’uomo si nota  non solo per i semplici fabbricati bianchi coperti di paglia messa a seccare sui tetti; i campi sono verdissimi, coltivati a orzo e piselli, che scopro poter attecchire anche oltre i 4.000 metri. Le case sono semplici, adagiate sul declivio verde ai piedi delle monumentali montagne; sono di due piani: al piano terra la stalla e al piano superiore la parte abitabile, composta in generale – mi spiega Johann – da una cucina che funge anche da soggiorno e da una camera da letto in cui dormono tutti insieme.

Nel villaggio vediamo una radura verde in cui sono raggruppati una quindicina di bambini che seguono le lezioni di una giovane insegnante dai lineamenti nordeuropei; scopriamo  che è ceca, così come l’organizzazione per la quale lavora con l’obiettivo di creare una scuola per i bimbi del villaggio, altrimenti costretti a fare tre ore di strada per raggiungere il maestro più vicino. Purtroppo, però, non si tratta di un’organizzazione ben strutturata, ma semplicemente di alcune persone con tanta buona volontà ma con scarsa conoscenza della realtà locale. L’insegnante ci spiega che non è stata chiesta nessuna autorizzazione alle autorità dello Zanskar, le quali hanno quindi intimato di cessare l’attività. L’aspetto della maestra, probabilmente mia coetanea, è già molto provato nonostante siano passati solo 11 giorni dal suo arrivo. E’ probabilmente per questa sua condizione, anche emotivamente problematica, che all’inizio ci tratta male, con aggressività, partendo senz’altro dal pregiudizio che noi siamo i turisti occidentali “cattivi” e che vogliamo solo fotografare i bambini e dar loro caramelle, trattandoli, come lei testualmente dice, “come animali”. Le cose cambiano quando manifestiamo la volontà di ascoltare in cosa consiste il progetto e nel momento in cui Johann le spiega che è indispensabile instaurare un rapporto con le autorità indiane, per ottenere qualche sovvenzione e per  non irritarle.

Certo è che mi sembra proprio un’esagerazione considerarci dei predatori pericolosi per l’integrità psicologica dei piccoli. Forse bisognerebbe cercare di guardare a quello che accade con la semplicità dei bambini piuttosto che contaminare la realtà con tutte le ampollose sovrastrutture tipiche della mente adulta. Quale gesto è più naturale dell’offrire una caramella ad un bimbo? E che male c’è a scattare una foto a questi piccoli gioiosi che si mettono in posa con quella naturale vanità insita in ogni fanciullo? A me non sembra che queste cose, se fatte con giusto tatto, possano danneggiare alcuno; almeno non più di quanto possano farlo persone dotate sì di buona volontà, ma prive di senso pratico, che pretendono di aprire dal nulla una scuola, rischiando poi di chiudere baracca poche settimane dopo lasciando i bimbi e le famiglie con tante illusioni ed aspettative brutalmente tradite.

Dopo raggiungiamo il nostro campo verde situato lungo il fiume. Il montaggio delle tende procede sempre lento grazie alla flemma di Cham Chu e compagni, che vengono puntualmente e vanamente bacchettati da Johann.

Uno scopone himalaiano (le regole sono uguali) e la cena. Poi a letto alle 20.30.

28 giugno

 Quinto giorno di trekking

Oggi arriviamo fino a Purne, punto di partenza per la visita al Gompa di Phuktal. La giornata è lunga e si percorrono circa 20 chilometri belli ma ondulati con continua alternanza di salita e discesa. La gola si stringe e pian piano, dietro di noi, scompare la bellissima montagna dolomitica che ormai sembrava diventata un elemento inamovibile del paesaggio.

La valle, che verso la fine diventa un canyon profondo, cambia a seconda del versante: da un lato grigia e ricoperta di una rada erba verde scuro; dall’altro, rossa o nera, tutta rocciosa, con immensi ghiaioni ripidissimi che a guardarli a lungo quasi cagionano un senso di vertigine tanto sono vasti ed erti. A metà percorso si attraversano due villaggi, circondati dalle solite verdissime colture che sembrano oasi nel deserto di roccia. Poi, l’ultimo tratto del sentiero è sempre più stretto e il precipizio alla mia destra incute timore. Massimo, che è stato portato dal cavallo dato che non si sente bene, raggiunge un po’ prima di noi Purne; ci accoglie un campo erboso e confortevole, oltre che panoramicissimo. Addirittura c’è una sorta di osteria, dove, bevendo una coca cola, ci lasciamo andare a nostalgia consumistica e al desiderio di una bevanda che non sappia del metallo in cui viene bollita l’acqua. Come sempre in questi giorni, incontriamo l’americano grande e grosso che fa il nostro stesso itinerario (salvo, poi, a continuare il trekking fino al 16 di agosto). Big Jim dal sorriso di plastica e dal passo robotico è diventato uno dei tormentoni del viaggio. Pian piano si è dimostrato più socievole e ci ha raccontato che è in giro da febbraio e che è stato tre mesi nel sudest asiatico per poi venire qui…ma che lavoro fa?

29 giugno

 Sesto giorno di trekking

Il risveglio a Purne è comodo; rimarremo qui anche stanotte poiché oggi andiamo a visitare il Gompa di Phuktal, a due ore di cammino. Poi torneremo a dormire a Purne ed il pensiero, per un giorno, di non doversi trasferire con tutti i bagagli viene accolto con sollievo.

Il sentiero per il Gompa è piacevole e non troppo impegnativo; o saremo noi che ormai siamo allenati come dei veri atleti?

Il paesaggio è stupefacente come al solito in questi giorni. Peccato per la giornata grigia che ci fa solo intuire tutte le sfumature, dal nero al verde, che le formazioni rocciose potrebbero acquistare col sole. Lungo il percorso, sull’orlo del precipizio, vediamo dei pinnacoli di roccia friabile, di colore tufaceo, che ricordano in piccolo le immagini della Valle delle Fate, in Turchia, che ho visto solo in foto.

Il sentiero si fa ripido per raggiungere il Gompa inerpicato ed avviluppato alle rocce rosse. Compare all’improvviso, dopo che il sentiero piega a sinistra; è incredibile. Il monastero è tutt’uno con la roccia. Le piccole casette dei monaci, bianche, circondano il nucleo centrale del Gompa, di colore giallo scuro. L’ultimo tratto di strada è disseminato di muri di “mani” e di chorten o stupa cui ormai abbiamo fatto l’abitudine.

Si entra da un ingresso erto ed angusto. Qua e là si vedono monaci di tutte le età, vestiti con il tipico abito buddista rosso porpora e giallo, con un copricapo di lana arancione. Nell’ambiente principale del Gompa è in corso un particolare rito liturgico legato ad una ricorrenza riguardante un importante Lama vissuto nel monastero. E’ molto suggestivo sentire la tromba tibetana suonare autorevole ed austera per chiamare tutti, monaci ed ospiti, ad assistere alla funzione. I monaci, dal più piccolo al più anziano, sono di un’ospitalità squisita. Più compassati gli anziani. Scherzosi e discoli i bambini, che si divertono a farsi fotografare per poi rivedersi un attimo dopo nel display delle macchine fotografiche.

La cerimonia è suggestiva. I monaci recitano preghiere, alcune delle quali cicliche sgranando una specie di rosario (i mantra), poi mangiano, insieme ai numerosi pellegrini accorsi dai villaggi vicini, il frugale pasto servito dai  “monacielli” giovani: chapati, zhampa, zuppa di verdure e yoghurt. L’atmosfera è suggestiva e mistica, ma allo stesso tempo, grazie anche agli occhietti vispi dei piccoli monaci si ha la sensazione di spontaneità e serenità. Quando vedo la cucina, un antro buio come la pece con enormi pentoloni scuri, mi sembra di entrare in un monastero medievale; ci potremmo ritrovare nel “Nome della Rosa”.

C’è poi una stanza in cui sono custodite immagini di spiriti sacri per i buddisti. Johann ci racconta alcune storie su di essi. Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che, rispetto al Cristianesimo, il Buddismo conservi più vestigia degli antichi culti pagani: si parla di spiriti legati ad elementi della natura, acqua, terra e tutto ciò che ricorda la mitologia greca e romana; storie di uomini che, in seguito ad eventi negativi, diventano demoni per poi essere pacificati e così via; è una religione che non conosco e di cui Johann pian piano mi spiega alcuni principi. E’ affascinante ed intuisco, tra l’altro, l’esistenza di un sostrato filosofico profondo, come mi spiega lo stesso Johann, Parlando delle disparate scuole di pensiero che si confrontano da secoli nel Buddismo.

Poi, un altro po’ di tempo trascorso con i piccoli monaci che si divertono, stupiti, a toccare i peli delle nostre braccia e delle barbe cui non sono abituati; mi vengono in mente gli Incas che chiamavano gli spagnoli “barbudos”. Massimo, con la sua barba, è il più gettonato ed un piccolo monaco lo definisce addirittura uno yak!

Mangiamo in un suggestivo spiazzo nella parte alta del Gompa, con un panorama mozzafiato e regaliamo un po’ di cioccolato ai monaci che passano di lì, i quali accettano con gioia.

Poi è tempo di tornare. Uscendo dal monastero, incontriamo molte donne locali venute per assistere alla cerimonia, le quali scherzano provocatoriamente con Tashi che sembra riscuotere grande successo presso il pubblico femminile locale.

Tornati al villaggio di Purne, Massimo e Francesco,venutosi a sapere che sono medici, vengono interpellati per curare due bambini e risulta quanto mai utile e provvidenziale la farmacia che hanno portato dall’Italia.

30 giugno

 Settimo giorno di trekking

Mi risveglio riposato nel bel campo di Purne. Non ho mai avuto difficoltà a dormire in tenda, ma ormai ci dormo quasi come farei nel mo letto.

Ci attendono gli ultimi due giorni di escursione. Dovremmo arrivare nel villaggio di Ikar, ma ci accamperemo un po’ prima perché Johann ci racconta che nel campo di Ikar c’è uno spirito che, di notte, sposta i sassi e non fa dormire bene chi sosta là; giura di averlo sperimentato di persona d io sarei molto curioso di far visita allo spiritello dispettoso, ma gli altri, pur essendo scettici, preferiscono fermarsi prima (saranno poi davvero scettici?).

Il tempo continua ad essere variabile. Scherzo con Johann: meno male che doveva essere una regione desertica; mi sembra piovosa quanto la verde Irlanda! Il sentiero è molto stancante: un continuo saliscendi lungo il lato sinistro del canyon, che si fa sempre più profondo, diventando talvolta un angusto orrido solcato dal gran fiume vorticoso. Qua e là si ergono, sulla parete opposta, pinnacoli di roccia bianca che staccano nettamente rispetto alle montagne rosse o nero-verdi. Talvolta, purtroppo per noi, il sentiero scende fino al livello del fiume (e dopo le risalite sono durissime), dove si formano vere e proprie spiagge di sabbia grigia; andando sulla battigia, mi rendo conto che la sabbia si muove e cede inghiottendo pian piano i miei talloni. Sono sabbie mobili, ma ne esco agevolmente, senza bisogno di alcun eroico salvataggio. Ogni tanto sul sentiero si incontrano persone cordiali e sorridenti che salutano spontaneamente: “giulè”; questo il saluto, rapido e conciso, come del resto – mi sembra ascoltandola- tutta la lingua tibetana che pare concepita per non far sprecare fiato a chi deve parlare a queste altezze.

In questi giorni abbiamo incontrato seminomadi che portano al pascolo yak, mandriani con cavalli o altro bestiame, donne, giovani e vecchie, curve sotto il peso di ceste colme di pietre necessarie a costruire case; ma è soprattutto un incontro che mi ha colpito, con una donna molto anziana, semicieca e sorda che andava da un villaggio all’altro da sola, avanzando sull’accidentato sentiero soltanto con l’ausilio di un bastone e con delle scarpe, diciamo, da città: un contrasto stridente con noi, molto più giovani e super equipaggiati, che alla fine di ogni giornata ci abbattiamo stremati sul prato mentre altri ci montano le tende.

Arriviamo al campo che ci ospiterà per la notte, una mezz’ora prima di Ikar. Il campo è sciatto e arido, proprio lungo il fiume impetuoso. L’unico vantaggio è dato da una specie di locanda chiamata nientedimeno che “Pepula hotel”, un antro buio e fumoso composto di due stanze, in cui però possiamo mangiare al caldo del fuocherello acceso dal singolare gestore, un uomo taciturno che si esprime a monosillabi a malapena sussurrati; ci viene il dubbio che sia il mostro dello Zanskar.

Dopo cena e prima di andare a letto, grazie al vento che ha spazzato via le nubi, il cielo si fa terso e la grande protagonista è un’abbagliante luna piena che irrompe da dietro le montagne e trasforma il corso d’acqua in un fiume d’argento che scorre illuminando le sponde; è uno spettacolo davvero affascinante che rapisce tutti. Dopo i primi minuti di contemplazione, scatta la corsa all’improbabile foto notturna tra  batterie scariche, treppiedi difettosi e intoppi vari. Io saluto tutti e vado a letto.

1 luglio

Ottavo ed ultimo giorno di trekking

 Ci attende l’ultimo giorno di escursione. Abbandoniamo senza rimpianti lo squallido campo e ci incamminiamo alla volta di Reru, dove trascorreremo l’ultima notte in tenda .Il tragitto non è lungo e verso l’ora di pranzo siamo già a destinazione. Percorriamo l’ultima parte del canyon. Il tempo continua ad essere capriccioso: vento, pioggia, sole, di nuovo pioggia e poi sole. Verso la fine, una terribile salita ci attende; usciremo dal canyon e arriveremo sull’altopiano che ospita il villaggio di Reru. La fatica ci prova, ma ne vale la pena. Il luogo è particolare, perché ci sono due altipiani, quasi sovrapposti, come due enormi terrazzi, che formano una vastissima piazza circondata tutt’intorno da montagne innevate. Sulla terrazza inferiore, ampia e coperta da un manto d’erba giallognola, c’è la scuola di Reru che raccoglie i bambini di tutti i villaggi limitrofi. Arriviamo verso l’una ed evidentemente la scuola è appena finita: i bambini, appena ci vedono corrono verso di noi festanti. Il campo si trova sulla terrazza superiore, più piccola. E’ molto verde, di un verde intenso ed è circondata dai campi d‘orzo. Ma non è il posto ideale per accamparsi perché siamo praticamente in mezzo al villaggio, esposti alla vista di tutti. Tutto sommato, il resto della giornata è di riposo totale. Non ci resta che aspettare che si faccia sera per trascorrere la nostra ultima notte in tenda. Nel pomeriggio visitiamo il villaggio; è semplice, ma abbastanza vivace soprattutto, credo, grazie alla scuola. Ci sono tanti bambini che giocano ed alcuni simulano una partita di cricket. Lo sguardo, comunque, è rivolto sempre verso l’alto, alle montagne che, con quel poco di sole che finalmente si mostra, acquistano colori delicati grazie alla luce soffusa del tramonto. Le sfumature che si intuivano col cielo plumbeo ora diventano più nitide e così i nostri occhi percepiscono chiaramente il rosa o il grigio antracite delle pietraie ed il verde rame dei costoni. Al crepuscolo è tempo per le foto di rito con tutto il gruppo alcuni membri del quale domani faranno ritorno a Manali con i cavalli. Poi l’ultima cena in tenda cucina e tutti a letto, pardon, nel sacco a pelo aspettando un vero letto per domani a Padum.

2 luglio

Reru – Padum

 L’appuntamento col taxi a Reru è alle 8 di mattina, ma essendo in India l’approssimazione è d’obbligo e così la jeep arriva con circa due ore di ritardo. Noi non ci scomponiamo e ci stendiamo su un masso a prendere il sole. Salire in macchina mi fa un effetto strano; forse non mi era mai capitato di non vedere e di non usare un veicolo a motore per otto giorni. Il rapporto distanza-tempo è, al solito, indiano: si impiega un’ora per percorrere venti chilometri.

Sulla strada ci fermiamo a visitare il Gompa di Mune. E’ molto più piccolo e tranquillo di quello di Puhktal, ma proprio per questo è più intimo. Anche la sala principale, con il lucernario che lascia filtrare qualche raggio di sole al centro, è calda e raccolta, con le tonalità di arancione che si accendono alla luce che trapela dall’alto. I monaci, non avvezzi ai turisti, sono cortesi ed amichevoli e ci lasciano addirittura fotografare gli interni, ricchi di bei volumi antichi e di preziose statuine votive.

Continuando il percorso in jeep raccogliamo anche un monaco e una ragazza che chiedono un passaggio: siamo un’accozzaglia singolare di persone: quattro viaggiatori, una guida francese con il codino, uno zanskaro doc, un tibetano, l’autista locale, un monaco buddista e una studentessa.

Padum, capoluogo dello Zanskar, è semplicemente ignobile: una strada spazzata dal vento che solleva turbini di polvere, ai cui lati sorgono cubi di cemento decorati con spuntoni di ferro arrugginito. La nostra guesthouse è una orripilante topaia; è nuova, sì, ma forse troppo dato che stanno ancora costruendo il secondo piano. La valle dello Zanskar, però, è bellissima. Sebbene le montagne siano altissime, ben oltre i seimila metri, la valle è ampia, ariosa pur essendo oggi il cielo grigio ed opprimente. Il terreno desertico è sovrastato dalle nude pareti rocciose; sembra un deserto messo in verticale; chissà che spettacolo con il sole!

Nel pomeriggio andiamo al villaggio di Tashi, poco distante da Padum. Nello Zanskar i villaggi sono certamente più accoglienti della capitale; semplici, ma dignitosi, con abitazioni bianche o color fango, si inseriscono perfettamente nella natura incantevole e maestosa. I livelli sono due: sopra, le montagne indomabili e selvagge che l’uomo non può far altro che ammirare e rispettare; sotto, a fondo valle, l’ambiente è dolcemente modellato dall’uomo. Ruscelli scorrono tra i verdissimi campi d’orzo e piselli che circondano le abitazioni. La casa di Tashi non è ancora terminata: manca il secondo piano. E’ tutto molto semplice; la famiglia vive in due ambienti, la cucina e un’altra stanza in cui si mangia e si dorme tutti insieme. E’ veramente diversa dalle nostre case: c’è solo l’essenziale, ma essenziale davvero, ciò che serve per sopravvivere. Non c’è neanche un mobile, se non alcuni scaffali su cui sono ordinatamente disposte le stoviglie in cucina. Nell’altro ambiente, solo dei bei tappeti e delle piccole panche che fungono da tavolini. I pochi, sdruciti indumenti sono appesi a chiodi infissi nelle pareti di fango. I bambini di Tashi (ne vediamo tre, i più piccolini, su cinque) sono bellissimi. Schivi ma sorridenti, si schermiscono, emozionati per la presenza di questi sconosciuti probabilmente, ai loro occhi, un po’ troppo pallidi. I tre piccoli sono sani e robusti, ma desta impressione la maniera in cui sono vestiti, con abiti laceri e scarpe rotte. Del resto anche Tashi veste sempre con gli stessi abiti che non cambia mai. La ragione è che qui le famiglie, praticando agricoltura di mera sussistenza, hanno di che mangiare, ma non dispongono neanche di un soldo da spendere in generi di consumo. Il poco denaro che Tashi guadagna accompagnando Johann viene speso per bisogni fondamentali come cibo necessario ad integrare i prodotti della terra.

La società, quindi, è praticamente immobile: nessuno vende la casa o la terra che rappresentano la sopravvivenza. I figli, tranne quelli che diventano monaci, di solito rimangono al villaggio e lavorano la terra come i genitori.

Ora – mi dice Johann – alcuni ragazzi proseguono gli studi e vanno anche all’università se riescono a vincere una borsa di studio. A chi ha conseguito un diploma, il governo indiano dà un lavoro statale. Johann mi spiega che è una politica assistenziale per queste zone ancora tribali quella di dare un impiego pubblico per famiglia. I ragazzi che seguono questo percorso tornano sempre a lavorare qui nello Zanskar, mentre è rarissimo il caso di chi fa scelte di vita diverse, cercando lavoro in altri luoghi dell’India.

Certo, quello che mi impressiona di più è il pensiero che la vita di un’intera famiglia possa dipendere da una grandinata, da una invasione di insetti che divorano il raccolto o da altre circostanze totalmente aleatorie.

La moglie di Tashi rincasa poco dopo il nostro arrivo. E’ una donna piccola, esile, con la carnagione scura e con gli occhi vivaci e coraggiosi che sprizzano energia. Johann ci dice che è lei a comandare in casa e a far rigare dritto i cinque figli, tre maschi e due femmine. E’ appena tornata dai campi, come si nota dalle vesti e soprattutto dalle mani coperte di polvere e fango. Di solito nello Zanskar è la donna a svolgere il grosso del lavoro nei campi, mentre gli uomini costruiscono le case e fanno i lavori extra che consentono di guadagnare qualche rupia. L’impressione, comunque, è che le donne lavorino molto più degli uomini.

Dopo la visita a casa di Tashi, resa ancora più piacevole dalle frittelle di spinaci e dai dolci tipici preparati dalla padrona di casa, torniamo a Padum. Mangiamo in un ristorante illuminato da luci che dire flebili è poco (la luce, tra l’altro, c’è solo dalle 20 alle 23) e poi andiamo a letto nella nostra squallida e sporca guest-house protetti dai fidi sacchi a pelo.

3 luglio

 Padum – Tungri

Il programma per oggi è di ritornare a Tungri, il villaggio di Tashi, perché c’è una festa che si concluderà con una gara di tiro con l’arco.

Prima di andare a Tungri ci fermiamo a visitare il Gompa di Karsha, inerpicato sulle rocce. Il Gompa è bello e suggestivo grazie anche alla posizione dominante. Peccato che sembri un pò disabitato ed abbandonato a se stesso. Il monaco che dovrebbe mostrarcelo non è solerte e dunque la nostra visita si conclude ben presto.

Arrivati al villaggio di Tashi, mangiamo a casa sua, aspettando che si facciano le 14, ora di inizio della gara di tiro con l’arco. Ma siamo in India e quindi la gara ha inizio alle 17. Durante le tre ore di ritardo, tutto il villaggio, diviso tra uomini e donne, beve senza limiti il chan, la locale birra d’orzo, che assaggiamo e che incontra il nostro gusto. Facciamo visita sia alle donne, allegre e un pò brille, sia agli uomini, nel cui locale regna un’atmosfera un po’ più cupa, dato che il fiume di chan qui scorre più impetuoso.

Dopo comincia in una radura la gara di tiro con l’arco. La precisione, che nei momenti di lucidità c’è senz’altro, è menomata dallo stato di ebbrezza in cui versano tutti i partecipanti. Ma non importa: la festa coinvolge tutti, i suonatori di tamburo, i bambini che raccolgono le frecce e che provano qualche tiro, le donne che assistono, gli uomini, alcuni dei quali (non Tashi) fanno mostra di una mira precisa. Tutti gli uomini, però, sfoggiano il tradizionale abito di lana rosso scuro. Dona molto sia ai giovani che agli anziani. Basta che lo indossino ed assumono tutti un aspetto più fiero e battagliero, sebbene l’incedere ed i tiri siano incerti per l’abuso di alcool.

Io faccio conoscenza con tre ragazzini  che frequentano la scuola media del villaggio; mi faccio spiegare i loro programmi scolastici. Studiano tre lingue (urdu, tibetano e inglese), la matematica, la storia e la geografia.

Mi chiedono da dove vengo. Sanno che l’Italia esiste, ma poi fa davvero tenerezza il fatto che mi domandino da che villaggio io venga. Alla fine mi dicono che da grandi vorrebbero essere medici ed ingegneri.

Alla fine delle festa, un’esperienza davvero divertente ed autentica, torniamo a Padum. Cerchiamo di telefonare in Italia, ma sembra proprio che le comunicazioni siano impossibili. Oggi non funziona neanche internet. Non ci resta a questo punto che andare a mangiare e a dormire.

4 luglio

 Padum: festa nel gompa di Tonde

 Il gompa di Tonde, vicino a Padum, è antico e suggestivo, con la consueta sala centrale illuminata da una luce soffusa ed arricchita dai fascinosi libri antichi di preghiere. Oggi, però, è una giornata particolare per il villaggio perché nel monastero si celebra un festival che richiama tutti i devoti del circondario. L’atmosfera è festosa e frenetica: bambini discoli corrono qua e là facendo dispetti, donne in splendidi costumi tradizionali dai fastosi copricapo arrivano al Gompa dopo aver scalato a piedi le erte rampe che vi conducono. Più della celebrazione in sé e per sé, pure interessante e suggestiva, mi colpisce la spasmodica attesa del pubblico variopinto ed eterogeneo. Papà addirittura riconosce un fotografo giapponese (che certo per stazza e look non passa inosservato) che aveva visto e notato due anni fa in Ladhak proprio in occasione di un altro festival. Scambiamo due chiacchiere: il fotografo samurai lavora per National Geographic e si dimostra affabile e cordiale sebbene sia il famoso Michel Yamashita, autore di importanti libri e servizi sull’Oriente.

Perfino qui colpisce il contrasto tra l’India che si sta occidentalizzando  quella tradizionale e gelosa dei propri costumi: così si nota la coppia composta da una nipote in jeans, maglietta e occhiali da sole e l’anziana nonna dalla pelle rugosa, vestita con l’abito tradizionale zanskaro.

Più passa il tempo più gente arriva. Il Gompa, piccolo e raccolto, si riempie fino ad essere strapieno. Complice anche la proverbiale indisciplina indiana, l’inizio della cerimonia, previsto per le 11.30, slitta addirittura alle 14. L’andirivieni dei monaci indaffarati è frenetico, finchè, scandito dalla percussione ritmica dei tamburi, ha inizio il festival. Prima compaiono i monaci con la tromba tibetana e poi da una scalinata scendono le maschere che danzano. La folla è impressionante, assiepata sia, come noi, nel cortile, sia sul terrazzo sovrastante. Tra tutti i volti tibetani si notano qua e là pochissimi stranieri (una decina al massimo)  accorsi come noi per vedere il festival e catturare immagini suggestive.

A un certo punto, nel cortile, già piccolo e reso ancora più angusto dalla folla, compaiono anche una pecora ed un enorme yak; Johann ci dice che si tratta di un rito di purificazione. Noi, piuttosto, pensiamo a cosa succederebbe se lo yak si imbizzarrisse in questa piccola corte sovraffollata e senza via di fuga. Ma per fortuna Buddha protegge i pellegrini e così le bestie entrano ed escono senza fare danno.

La giornata è molto calda ed il sole, a quasi 4.000 metri, picchia terribilmente, sicchè decidiamo di andarcene un po’ prima della fine della cerimonia. Scendiamo a piedi per il ripidissimo pendio. Finalmente, dopo tanti giorni grigi, il tempo è bellissimo e lo spettacolo della valle dello Zanskar è maestoso. Il sole fa risaltare i colori delle montagne aride ed il contrasto con il verdissimo fondo valle coltivato è ancora più netto. Il cielo è di un blu profondo e nitido che dà un’impressione di infinita vastità.

Tornati  a Padum esperiamo il tentativo, come al solito vano, di telefonare. Dopo cena piomba la totale oscurità tipica dello Zanskar rischiarata solo dalla luce delle stelle.

5 luglio

 Padum – Kargil

Oggi ci attende una giornata di viaggio, la prima delle due tappe che ci porteranno a Leh. Per raggiungere la valle del Ladhak la strada fa un giro molto lungo, ma, se si seguisse il fiume Zanskar, affluente dell’Indo che solca il Ladhak, il tragitto sarebbe lungo poco più di cento chilometri. La valle dello Zanskar, però, dopo Padum diventa strettissima, un vero e proprio canyon solcato dal fiume che crea pericolose rapide, scorrendo tra pareti alte e dritte che non lasciano spazio né per strade né per sentieri. L’unico modo di percorrerlo è risalire il fiume quando è gelato, d’inverno, con un temperatura di meno trenta-quaranta gradi; del resto, nella stagione che va da ottobre a maggio è l’unica strada d’accesso alla valle perché i passi, tutti oltre i 4.000 metri, non sono transitabili per la neve. Gli avventurosi viaggiatori, durante gli otto-dieci giorni di marcia su ghiaccio, di notte, possono ricoverarsi nelle poche grotte che rompono i costoni verticali, grotte nelle quali la temperatura è, si fa per dire, più mite. Sembra un’impresa da yeti, ma in realtà ci sono anche europei che vi si cimentano. Johann ci racconta di averlo fatto insieme a Tashi; ricorda che il viaggio è stato durissimo, che ha perfino rischiato la vita cadendo nell’acqua gelata per la rottura del ghiaccio, ma sostiene che sia stata una delle esperienze più belle della sua vita.

Ma, poiché siamo in estate (altrimenti ci saremmo lanciati nell’impresa), dobbiamo seguire la strada lunga e tortuosa oltre che sterrata. Oggi percorreremo poco più di duecento chilometri: ci vorranno, incredibile ma vero, circa dodici ore. Passiamo per il villaggio di Tungri, dove recuperiamo Johann e Cham Chu che vengono con noi. Ci congediamo da Tashi consegnandogli la somma che servirà per mandare a scuola i suoi figli come ci siamo impegnati a fare già nel 2006 quando lo conoscemmo in Ladhak. Il saluto è rapido, essenziale ma affettuoso, segnato dalla sciarpa dell’ospitalità che Tashi ci mette al collo con le sue mani.

La prima parte della strada, fino al passo Pensi-la (“la” significa passo) e un po’ oltre è mozzafiato. Quando si comincia a salire, si vedono ghiacciai, montagne enormi e poi ghiacciai, ghiacciai e ancora ghiacciai. Lo spettacolo è talmente emozionante che si dimentica perfino quanto disastrosa sia la strada. Gli occhi sono sempre rivolti verso la catena montuosa. Quando arriviamo ai 4.400 metri del passo, le lingue di ghiaccio che scendono dalle montagne sfiorano la strada la quale, ovviamente, d’inverno non è percorribile, ragione per cui Padum, per buona parte dell’anno, è totalmente isolata così come tutta la valle dello Zanskar.

Dopo il passo, dietro le montagne a noi più vicine, sbucano, maestose ed imponenti le cime del Nun e del Kun, entrambe superiori ai 7.000 metri. Sono montagne gemelle, l’una più grande e l’altra un po’ più piccola che si fronteggiano da vicino. Siamo nel cuore dell’Himalaya, quello vero, come dice Johann, e non troppo lontani neanche dal Karakorum con il suo K2, leggermente più ad ovest, nel Pakistan, dal quale non siamo lontani.

Al passo ci fermiamo a mangiare in una dhaba dall’aspetto orribile, ma rifocillarsi all’aperto, sotto il sole, circondati da questa natura splendida non capita tutti i giorni. Tra l’altro, il cibo è anche discreto.

Quando la strada, dopo il passo, scende, il paesaggio muta. In lontananza, abbaglianti e candidi, i ghiacciai himalayani sono sempre protagonisti, ma la valle è ora verdissima. La quota è più bassa ed il terreno è notevolmente più fertile. Siamo ora in zona a prevalenza musulmana e compaiono qua e là alcune moschee. Siamo nel Kashmir, vicino al confine pakistano; perciò incontriamo una lunga serie di chek-point di polizia e di casematte dell’esercito. La strada, pur essendo a quota più bassa, continua a peggiorare: una sorta di mulattiera gibbuta e sconnessa. Il viaggio è reso ancor più lungo dalla foratura, sostituzione e riparazione di uno pneumatico.

Quando finalmente arriviamo a Kargil siamo esausti, ma non rinunciamo a fare un giro in paese. Non si vede traccia dei bombardamenti pakistani degli anni ’90 e la città è più accogliente di quanto pensassimo. Johann, forse prevenuto contro i musulmani, che in maggioranza abitano il paese, ci aveva spaventato descrivendocela come un luogo orribile. In realtà è un centro molto vivace, in cui si nota la spiccata propensione per il commercio tipica degli islamici. Benchè la voglia di riposare sia tanta, ci lasciamo coinvolgere in un breve ma proficuo shopping che ci frutta, tra le altre cose, un tappeto ottimo per appesantire il bagaglio.

6 luglio

 Kargil – Leh

 Di buon mattino ci svegliamo per affrontare la seconda ed ultima tappa per Leh, il capoluogo del Ladhak, da cui prenderemo il volo per Dheli. Saliremo dai 2.600 metri di Kargil, la quota più bassa raggiunta fino ad ora, ai 3.700 metri di Leh superando il passo Fatu-la. Presto il paesaggio cambia repentinamente e dal verde di Kargil si passa ad un panorama lunare. E’ anche questo un deserto verticale, ma ancora più arido e spoglio dello Zanskar. Enormi montagne dalle cime arrotondate, evidentemente più antiche di quelle viste ieri, sono solcate da canaloni e forre che appaiono come profonde rughe sul volto della roccia. La montagna sembra friabile, sabbiosa, ma dalla strada si nota che sotto un primo strato incoerente c’è una coriacea base di granito. La strada è molto migliore di quella di ieri e c’è anche qualche camion in più, ragion per cui non mancano i sorpassi da brivido. Al passo è spettacolare la visione della strada che si snoda nera e sinuosa giù verso il gompa di Lamayuru, posto ai margini di un incredibile anfiteatro di roccia gialla che spicca da lontano fra le montagne; sembrerebbe quasi una gigantesca cava, ma invece è tutta opera della natura. Ci fermiamo per una breve visita al gompa di Lamayuru, che sia Massimo che papà, insieme al resto del gruppo, visitarono nel 2005; ed infatti papà, appena entrato, riconosce un piccolo monaco che già era in convento nel 2005. Il Gompa, come gli altri già visitati, è suggestivo, avvinghiato alle aride montagne del Ladhak. L’interno è bello e molto profumato grazie al pavimento di legno, che dona calore ed intimità. Certo, essendo un posto più raggiungibile (ed infatti si vedono alcuni stranieri, tra cui un gruppo di italiani), non c’è il solito monaco che ci conduce con il mazzo di chiavi per mostrarci tutti gli ambienti.

Dopo aver ancora una volta ammirato il panorama suggestivo, ripartiamo alla volta di Leh. La strada continua ad essere in buone condizioni ed è addirittura ottimo l’ultimo tratto, di recente riasfaltato.

Il paesaggio, se possibile, è ancora più desertico e suggestivo ed è punteggiato di vasti e numerosi campi militari indiani, essendo anche questa zona di confine con il Pakistan. Ed infatti il via vai di autocolonne militari è continuo.

Quando arriviamo a Leh che si vede bene dall’alto al centro dell’oasi verde che la circonda, è presto e così posso riposarmi. Ne ho bisogno perché ho un po’ di febbre ed i due lunghi trasferimenti sono stati davvero stancanti.

La sera esco per andare a cena e do un’occhiata alla città, comunque piccola. E’ molto vivace e ricca di negozi che sembrano anche forniti di begli oggetti di antiquariato. Peccato che tutti i negozi tibetani siano chiusi poiché oggi è il compleanno del Dalai Lama.

Dopo cena, come sempre in questo viaggio, andiamo a letto presto in vista del volo per Dheli di domani e della successiva partenza notturna per l’Italia.

7 luglio

 Leh –Dheli

L’alba di Leh è bella con le montagne innevate che, rosee, si vedono in lontananza illuminate dal primo sole del mattino. Dopo aver superato i rigidi e scoordinati controllo aeroportuali di Leh, ci imbarchiamo sull’aereo per Dheli e partiamo. Il volo è l’ultima emozione che mi regala il viaggio. Il tempo è bello, col cielo terso, e si vedono a perdita d’occhio, verso ovest, montagne, massicci, picchi, vette dalle incredibili forme geometriche, tutte imbiancate da spesse coltri di neve che formano ghiacciai enormi estesi da una montagna all’altra. Più vicine e maestose, svettano le cime del Kun e del Nun che l’altro ieri abbiamo viste dal basso andando verso Kargil. Tra le imponenti ed infinite montagne, profonde valli solcate da fiumi e qua e là un lago dall’incredibile colore turchese e nessuna traccia di insediamenti. Mi piace pensare che forse, laggiù, sotto di me, nessun essere umano abbia mai esplorato quelle valli aspre ed inaccessibili.

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Ringrazio Gianni che mi ha inviato questo bel diario di viaggio…ha anche un bel sito  internet assieme a suo fratello raggiungibile all’indirizzo: www.giellescaramuzzino.it

 

 

 

@genrico@

Vagabondo per natura, cittadino del mondo,appassionato di viaggi,reportage,fotografia, cultura asiatica e tibetana. Pagina ufficiale pubblica su facebook: https://www.facebook.com/lavitaeunviaggio

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